GIULIA MARTINI

Sono arrivata a Como con la fine dell’inverno. Era il vicino, direte voi, 1995.
L’amore per la musica arriva da mia madre. Il violino, invece, arriva da me.


I primi ricordi hanno il profumo del muschio. Trascorrevo le mie giornate nei boschi, con il naso all’insù e la mano stritolata in quella grande e ruvida di mia nonna. Raccoglieva le ortiche senza guanti, mi insegnava i nomi delle piante. Lei è tutt’ora la donna più forte che conosco. 


Da piccola, ho imparato che la forza stava bene con la solitudine.


Tutto accadde una sera, a casa della nonna. Passarono in TV un film intitolato “Il violino rosso”; ricordo solo due scene: il laboratorio del liutaio e la sepoltura del bambino, assieme al suo violino. 


“Nonna, voglio suonare il violino”.

“Mamma, voglio suonare il violino”.

“Papà, voglio suonare il violino”.

“Caro Babbo Natale, vorrei ricevere un violino rosso”.


Natale passò e del violino nemmeno l’ombra. 


Non ricordo quanto tempo trascorse prima di trovarmi a Loveno da Francesca, la mia prima insegnante. Avevo sette anni. La prima lezione fu illuminante: la difficoltà dello strumento era niente rispetto all'urgenza d’imparare a suonare.

Arrivò la seconda lezione e con essa il mio primo violino. Aprii la custodia, trattenendo il respiro. 

Era piccolo.

Era rosso.

Il mio cuore perse un battito. 

Per diverse notti dormii con il violino, svegliandomi di quando in quando per controllare che fosse ancora lì con me, nel mondo vero. 


Passano gli anni e inizio la scuola media, dove adesso lavora Cece. 

Cambio insegnante: Francesca non poteva più seguirmi, veniva da lontano solo per me. Alla scuola di musica del Conservatorio di Lugano incontro Katalin, con i suoi capelli nerissimi e gli occhi luminosi. La sento suonare. È bravissima, così tanto che ho un po’ paura.


Con l'adolescenza, mi vesto d’insicurezze. Finisco le medie, il primo anno di superiori (male) e torno a studiare in Italia, a Como. 

L’incertezza cresce rapida, silenziosa come l’edera e quando i suoi rami arrivano al violino, è l'inizio della fine. Le dita sono rigide, suonare davanti agli altri mi fa venire la nausea e uno strano ronzio alle orecchie. 

L'orchestra diventa la mia nuova attività preferita; dietro le spalle dei miei compagni mi sento sicura. Non sono più Giulia, ma la cellula di un organismo più grande. Passa qualche tempo e l’edera arriva anche lì.


Diciotto candeline, scelgo l’università. Trovo anche, dopo tempo, il coraggio di dire a mia madre che voglio interrompere lo studio del violino. 

Lei non ha mai smesso di sognare con me, qualunque cosa facessi.


Qualche anno più tardi, dopo l’ennesima richiesta, sono stanca di scappare. Seduta sul pavimento della mia stanza, prendo a torturarmi le mani, nel grembo un violino che stento a riconoscere. Bastano un paio di note per capire quanto sarebbe stato difficile recuperare il tempo che ci ha divisi. Questa volta però, non intendo cedere.

Inizio a fare i primi, impacciati live con i Simba & The Jungle, che ringrazio. La loro spontaneità mi ha fatto dimenticare, a tratti, la paura di sbagliare. 


Tutto questo e una strana serie di coincidenze (dicono che destino sia il termine giusto), mi portano in un locale vicino a casa. È una sera di fine maggio e suonano i Tirlindana: sono bravi, hanno una sorta di magnetismo che spinge il pubblico a scrollarsi di dosso l’indifferenza. A fine serata, mi sorprendo a parlare con loro. La cosa ha dell’incredibile, perchè è come se li conoscessi già.

Il resto non è storia, ma qualcosa che mi riesce difficile spiegare. Hanno raccolto me e il mio violino, con tutto il pacchetto “all inclusive” di ansie e paure, per portarmi a suonare con il cuore in mano (e in gola), davanti a voi. 


Da grande, ho capito che la forza sta bene con le mie fragilità.